Iraq. Una testimonianza da Ainkawa

Il racconto della nostra Patrizia Marocchi, direttamente da Ainkawa, quartiere cristiano di Erbil, all’indomani dell’arrivo di migliaia di sfollati.
16 agosto 2014
Fonte: http://www.unponteper.it - 13 agosto 2014

“Verso le dieci di sera il parroco ha detto che ISIS si stava avvicinando e che dovevamo scappare prima che arrivasse. Ci siamo messi in auto e abbiamo guidato verso Erbil”.

Le storie di molte persone, oggi sfollati ad Ainkawa, quartiere cristiano di Erbil, cominciano con queste parole. Io mi sono resa conto della portata della cosa, quando la mattina successiva sono andata a lavoro, con la solita passeggiata di dieci minuti nelle vie di Ainkawa.

Le strade erano intasate di pick up carichi di cose e persone. Una massa caotica di materassi, buste di vestiti, qualche borsone, bombole del gas e qualche pentola.

L’ultima ondata di violenza ha costretto alcuni rifugiati siriani ad andare via dai loro campi. Nella foto: evacuazione del campo di Gawilan (Dhouk), 9 agosto. Le persone si sono accampate un po’ ovunque. Parchi e chiese, soprattutto. Dentro ai camioncini ci sono intere famiglie. Sono tutti stanchissimi e i più dormono. Tanti sono per terra, nelle aiuole, sui cartoni.

La chiesa che è sul mio percorso tra casa e ufficio è molto piccola. Tutti i suoi ambienti sono stipati di persone. Insistono perché entri a dare un’occhiata, e io non vorrei perché penso di ledere la loro dignità.

Quando entro capisco che sono io che non ho più il coraggio di sostenere lo sguardo delle persone che incontro. La chiesa é piena di una umanità spaventata, stanca per il viaggio e debilitata dai 45 gradi in questa stagione.Tanti sono stati anche cinque ore in auto ai check point per entrare a Erbil.

Molti hanno fatto scendere donne e bambini per attraversare a piedi il check point, per fare prima. Gli uomini in auto a fare la fila sotto il sole. Alcuni dormono su dei materassini dello spessore di pochi centimetri, altri sui cartoni appoggiati sull’altare.

Qara Qosh era una città di circa 50.000 abitanti, vale a dire più o meno come la città di provincia in cui io sono cresciuta. Ora è una città vuota perché i cristiani dovevano scegliere di convertirsi o andarsene.

La sorte peggiore è di quelle minoranze, tra cui gli Yazidi, cui ISIS attribuisce la venerazione del demonio. Per loro è previsto lo sterminio.

Alcuni amici yazidi mi raccontano che il loro ufficio è stato occupato da ISIS e che ora la bandiera nera sventola sul tetto. “Gli americani bomborderanno il nostro ufficio ora che è occupato da ISIS” mi dice il rappresentante di una ong locale yazida.

Un suo collega piange, mentre ci racconta quello che sta succedendo sulle montagne dove gli Yazidi sono scappati. Mi racconta atrocità che so che non saprò raccontare ad altri e che mi rifiuto di scrivere.

Più tardi sono andata a vedere la situazione in un’altra chiesa, la più grande del quartiere. Ci sono centinaia di famiglie. I gruppi parrocchiali sono stati i primi ad attivarsi cucinando riso al pomodoro e distribuendolo a tutti.

La Chiesa accoglie e mi sembra l’unica comunità capace di tendere la mano nell’esatto momento in cui le viene chiesto aiuto. I parchi sono diventati dei piccoli accampamenti di fortuna. Le coperte vengono legate agli alberi per poter avere il sollievo di un po’ di ombra. I bambini lavano vestiti alle fontanelle del quartiere. Tanti hanno avuto la fortuna trovare ospitalità a casa dei parenti. L’ospitalità è per i familiari, e per gli amici e per gli amici degli amici.

Non è tanto quanti letti liberi hai ma quanto suolo calpestabile hai in casa. Tanti, anche i miei colleghi, ospitano trenta o quaranta persone, alcuni hanno un letto, alcuni un materasso a terra. Tanti dormono sul pavimento.

Mi accorgo presto che i localini di Ainkawa sono stranamente deserti. Chiedo il motivo, e mi dicono che tanti tra uomini e ragazzi, hanno deciso di fare una colletta con i soldi che solitamente spendono per il té e la shisha. La colletta é per gli sfollati, ovviamente. La solidarietà umana scalda il cuore.

Ainkawa in due giorni è irriconoscibile. La geografia del quartiere sta cambiando rapidamente. Alcune strade non sono più aperte al traffico e ospitano le famiglie nelle tende. Campi tendati improvvisati sulle corsie delle strade.

Le associazioni, organizzazioni umanitarie e le agenzie delle Nazioni Unite si sono coordinate per una risposta all’emergenza e si pensa a nuovi campi dentro Erbil. I campi in Kurdistan ospitano da tre anni i rifugiati siriani e da un po’ di tempo anche gli sfollati iracheni. Ora anche questa emergenza.

Mi chiedo se oltre a provvedere a cibo e acuqa, non si potrebbe facilitare i visti per uscire da questo caos. Tanti genitori vorrebbero garantire la scuola ai proprio figli, o una bozza di certezza su quello che succederà domani. E’ la violenza e la brutalità dei loro racconti la cosa che più ferisce e il trauma che tutti loro si porteranno addosso.

Mi chiedo se possiamo ancora definirci umani quando, come comunità mondiale internazionale, ci mobilitiamo per acqua e cibo ma non siamo disposti a dare visti e aiutare le persone a ricostruirsi altrove la vita che avevano fino a ieri.

Patrizia è la responsabile del progetto IBTISAM (“sorriso”), che consiste in un intervento psico-sociale multisettoriale in 5 scuole elementari nel distretto di Ainkawa, frequentate da minori siriani e iracheni. Questo racconto è stato pubblicato il 10 agosto sul suo blog.

Questo sito utilizza esclusivamente cookies di tipo tecnico ovvero di sessione/profilazione non a scopi commerciali